lunedì 10 aprile 2017

“Non volevo morire vergine” di Barbara Garlaschelli: quando il diritto alla sessualità viene ignorato e negato

Non volevo morire vergine, Barbara Garlaschelli
“Le certezze si assottigliano, diventano un lusso; ecco, quindi che tra le poche che mi sono rimaste c’è che non voglio morire vergine. E non penso solo alla deflorazione fisica, a quel piccolo strappo tra le gambe. No, penso che non voglio morire vergine di esperienze, di vita, di sbagli di successi, di fallimenti. Non voglio morire vergine di sole, di mare sulla pelle anche dove non sento più. Non voglio morire vergine nel cervello avido di sapere, capire, conoscere.”
Un tuffo nell'acqua troppo bassa e le gambe vanno a farsi benedire. Barbara aveva solamente quindici anni e ritrovarsi improvvisamente tetraplegica non fu certo semplice. Anni per farsene una ragione, anni di fisioterapia per riacquisire alcuni movimenti come quello delle braccia. 

E il resto? Forse una persona con una disabilità ripone in un cassetto i suoi sogni, le sue aspirazioni e le sue pulsioni? Certamente no e Barbara Garlaschelli ne è l’esempio più calzante.

“Non volevo morire vergine” (Edizioni Piemme, collana Voci, marzo 2017) è il suo non voler morire senza aver vissuto appieno ogni esperienza ancora nuova per lei. Si parla di sesso, ma non solo, l’essere vergine riguarda sbagli e successi non ancora vissuti, i viaggi che non ha ancora compiuto, le persone che non ha conosciuto, le sensazioni che desidera provare nonostante tutto.

Barbara, milanese ma piacentina di adozione, vive da sempre di parole, ha realizzato il sogno di diventare scrittrice (ricordiamo i suoi “Sorelle”, vincitore del Premio Scerbanenco, “Non ti voglio vicino”, finalista al Premio Strega 2010, e il memoir che ha avuto grande successo “Sirena”), è laureata, ha una vita sociale intensa e la fortuna di aver avuto due genitori che le hanno donato vicinanza, libertà e autonomia. 

Ma ciò che per tanto tempo le è mancato è stato vivere delle esperienze intense con degli uomini. Ne aveva vari tra gli amici ma il vedersi in una sedia a rotelle era per se stessa, quasi più che per gli altri, un limite che pareva invalicabile.

Sarà stato sufficiente tirare fuori il coraggio e l’essere così fortemente ostinata per andare oltre?

Non vi resta che leggere le duecento pagine di questo romanzo scritto con la profonda ironia che caratterizza Barbara Garlaschelli scrittrice e donna, parole sincere, e prive di filtri, che affrontano argomenti troppo spesso considerati tabù.
Barbara Garlaschelli

Per esempio chi ha mai detto che essere disabili significhi essere privati del diritto di poter esprimere la propria sessualità? E per quale motivo la questione dell’assistente sessuale continua ad essere ignorata? Al riguardo nell’aprile 2014 venne presentato al Senato un disegno di legge ma chissà quanto ancora sarà necessario attendere prima che la questione, considerata ancora troppo spinosa, venga presa in considerazione sul serio.

La sessualità è un aspetto fondamentale e imprescindibile di ogni essere umano, la storia di Barbara diventa così ancora più importante e rappresenta una speranza per tutti, disabili e non, è la prova di come nulla sia impossibile se davvero la si desidera e se si ha la fortuna di avere accanto un forte ed adeguato sostegno.


“Il sesso, per la società, non fa parte delle priorità di un disabile. Un disabile deve essere accudito, curato, trattato come un infante anche se ha quarant’anni, ma è impensabile che il suddetto abbia impulsi e desideri sessuali. Il disabile è un essere angelico asessuato, un eterno fanciullo che può aver diritto a coccole e abbracci e baci ma epurati dalla sensualità. Questo naturalmente lo pensa chi disabile non è. Perché, udite udite, le donne e gli uomini disabili desiderano, anelano, vogliono fare sesso. E non necessariamente innamorarsi. No, fare l’amore per il piacere di godere di sé e dell’altro.” 

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