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Infanzia, Tove Ditlevsen |
“Mio padre era andato al lavoro e mio fratello a scuola. Perciò mia madre era sola, anche se c’ero io, e se restavo perfettamente immobile senza dire nulla, la quiete distante del suo cuore misterioso poteva durare finché il mattino non fosse invecchiato e lei non fosse dovuta uscire per fare la spesa in Istegade come una signora qualunque.”
Tove è una bambina che vive con i genitori e il fratello maggiore in un quartiere operaio di Copenaghen.
Il padre passa da un impiego all’altro e sdegna il socialismo mentre la madre è piena di rancore, non è ben chiaro per quale motivo, e sempre intrattabile con tutti.
Per Tove crescere e stare con gli altri non è semplice e persino con l’amica Ruth non riesce ad essere veramente se stessa.
Il suo desiderio è
quello di scrivere poesie ma il padre le ha detto che le donne non possono
scrivere e la madre, ne è certa, la riterrebbe un’attività inutile e frivola.
Forse il fratello ha intuito
qualcosa ma anche lui è troppo preso dalla sua vita non semplice per pensare a
quella della sorella.
Tove si rende conto ben
presto che quello in cui si trova non è il suo mondo, nessuno la capisce,
quelle persone le sono per lo più estranee ed è come se osservasse dall’esterno
ciò che le accade.
“Infanzia” (Fazi Editore,
2022, traduzione di Alessandro Storti) è il primo volume della trilogia di Copenaghen
di Tove Ditlevsen, scrittrice e poetessa danese che si tolse la vita nel 1976.
La sua vita tormentata
ebbe inizio tra le mura di casa, durante la sua infanzia, ed è questa che viene
raccontata nella sua autobiografia, per la prima volta tradotta in Italia e
solamente di recente riscoperta e celebrata a livello mondiale come capolavoro.
“Buia è l’infanzia, e
sempre sofferente come un animaletto intrappolato in un sotterraneo e
dimenticato. Esce dalla gola come fiato condensato dal gelo, e certe volte è
troppo piccola, altre volte troppo grande. Non ha mai la misura che ci
vorrebbe.”
Ogni parola, ogni pagina
ci riportano in luoghi e visioni ben precise, quasi come se in quei luoghi e
con quelle persone fossimo presenti anche noi.
Con lei riviviamo l’angoscia,
il tormento di un’infanzia che Tove non vede l’ora di abbandonare ma che una
volta trascorsa non sarà meno dolorosa.
“Giù, sul fondale dell’infanzia,
c’è mio padre che ride. È nero e vecchio come la stufa di maiolica, ma non ha
nulla che mi faccia paura. Di lui, so quel che so, e se voglio sapere altro,
non ho che da chiedere. Di sua iniziativa non mi parla, perché non sa cosa dire
a una bambina.”
Neppure in Danimarca era semplice farsi avanti nel mondo della cultura per una donna e per lei, che di libri e poesia e vita reale voleva nutrirsi, fu sempre così faticoso e desolante.
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Tove Ditlevsen |
“Allora io mi tolgo la
veste, la sopragonna di lana e i calzettoni neri che ogni anno ricevo a Natale,
m’infilo la camicia da notte e per un istante mi siedo sul davanzale interno
della finestra a guardare il cortile nero, giù nell’abisso, e il muro della
casa dirimpetto, che piange sempre, come se avesse appena piovuto.”
Tove Ditlevse niente ha
da invidiare alle colleghe Annie Ernaux o Simone de Beauvoir, per citarne alcune,
che come lei che hanno saputo raccontare l’essere donne e la femminilità con
spietata concretezza e poesia al tempo stesso.
Pagine indimenticabili
che ben presto si riempiranno di nuove parole con la pubblicazione del secondo
capitolo dal titolo “Gioventù”.
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